La parola “genocidio” non può essere imposta

Le parole non vanno scelte per paura, per pressione o per adesione a una fazione. Si scelgono per rispetto della verità.

Nel corso dei conflitti, quando immagini e testimonianze scuotono l’opinione pubblica, le parole assumono un peso diverso. Negli ultimi anni, la parola forse più abusata è “genocidio”. Non usarla viene considerato una colpa, tanto da finire accusati di complicità o addirittura di negazionismo. Se si chiede che a stabilirlo siano i tribunali competenti, l’accusa diventa quella di codardia, ambiguità o, peggio ancora, di insensibilità verso le vittime. Non è affatto così.

Cos’è un genocidio? Non è una questione di cuore

Il termine “genocidio” non nasce come espressione giornalistica o attivista. Nasce nel diritto. È definito nella Convenzione ONU del 1948 come l’insieme di atti compiuti con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.

Parliamo di un’accusa estremamente grave, che richiede non solo la prova delle atrocità, dell’orrore e dei massacri per quanto veri e insopportabili. Serve provare quell’intento distruttivo, serve ricostruire un disegno, una volontà precisa.

La parola “genocidio” non si può usare “a occhio”, né ridurre a un giudizio morale o a una reazione emotiva, per quanto comprensibile. Non siamo noi a doverla certificare, ma le corti internazionali che ne hanno l’autorità, come la Corte Penale Internazionale, la Corte Internazionale di Giustizia, o tribunali ad hoc nei casi specifici.

Possono volerci mesi, forse anni, e l’attesa può essere frustrante, ma dobbiamo metterci in testa che la giustizia non deve correre per inseguire un trend.

Non usare una parola oggi non significa negare che domani possa essere vera

Questa è forse la parte più difficile da spiegare, soprattutto a chi vive il dibattito come una battaglia ideologica. La prudenza non è complicità e aspettare che una parola venga provata non significa negarla.

Se una corte stabilirà domani che ciò che sta accadendo, o che è già accaduto, è un genocidio, allora lo chiameremo con quel nome senza esitazioni e con la forza che quella parola merita.

Nel frattempo, è non solo possibile, ma necessario, denunciare crimini, raccontare le sofferenze, pretendere indagini indipendenti e chiedere protezione per i civili. Tuttavia, non possiamo usare la parola “genocidio” come slogan, né come pegno per evitare di essere attaccato e accusato.

Non è una fuga, ma una scelta etica e professionale. Se tutto diventa “genocidio”, niente lo è davvero, con la conseguenza che la parola perde forza e le vere vittime non otterranno giustizia.

L’attenzione alle parole

Chi verifica i fatti, come me, è abituato a camminare tra accuse opposte. C’è chi mi ha definito pro-Israele e pro-Palestina, sionista o sostenitore di Hamas, spesso nella stessa giornata, da persone diverse. Lo dico e lo ripeto: non sono qui per far felici le tifoserie. Continuerò a chiamare le cose col loro nome e quando ci sono gli elementi per farlo, perché le parole giuste non vanno urlate: vanno dimostrate.