La tassa sui sacchetti per la frutta e la verdura e la direttiva europea

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In merito alla tanta discussa “tassa” sui sacchetti per la frutta e la verdura ne stanno uscendo di tutti i colori, tentativi di bufalosi boicottaggi a parte. Il 2 gennaio 2018 la pagina Facebook del Partito Democratico pubblica un’immagine con il seguente commento:

La nuova legge sull’uso dei sacchetti di plastica mira a ridurre, e non aumentare, la produzione di sacchetti, e dunque punta a ridurre l’inquinamento e a favorire il riuso. Inoltre la nuova legge recepisce una direttiva europea che, se non attuata, avrebbe portato a una multa per il nostro Paese.

In questo approfondimento a cura di Alessia Morani trovate tutto ciò che c’è da sapere.

L’immagine contiene quattro punti sul “cosa c’è da sapere” in merito alla “riduzione dell’utilizzo dei sacchetti di plastica“:

1) L’Italia ha adottato una Direttiva Europea (2015/720) per evitare il rischio di infrazione

2) Il pagamento (già possibile in numerosi supermercati e centri commerciali) è reso esplicito per incentivare i consumatori a riciclare vecchi sacchetti di plastica e dunque inquinare meno

3) Il costo medio è di un euro ogni 50 sacchetti

4) In caso vi sia chiesto un contributo superiore ai due centesimi per sacchetto, sappiate che è ILLEGALE. Dovete denunciarlo alle istituzioni o alle associazioni dei consumatori.

Partiamo per ordine. La Direttiva Europea riguardante i sacchetti di plastica è di qualche anno fa, ma è dell’estate 2017 l’annuncio da parte della Commissione Europea di una procedura di infrazione per non averla rispettata, siccome portava come data di scadenza utile il 26 novembre 2016. Ecco quanto riportato da ANSA il 14 giugno 2017:

BRUXELLES – La Commissione europea ha inviato una richiesta di parere motivato all’Italia per mancato recepimento della direttiva del 2015 sulla riduzione dell’utilizzo nei sacchetti di plastica. Insieme all’Italia anche Polonia, Cipro e Grecia hanno ricevuto lo stesso avviso.

Per rispondere alle richieste europee, il Governo ha predisposto nella legge di conversione n. 123 del 3 agosto 2017 (il Decreto Legge Mezzogiorno – PDF) quanto segue:

  • Le borse di plastica di cui al comma 1 non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti trasportati per il loro tramite.
  • Le borse di plastica in materiale ultraleggero non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati per il loro tramite”;

La norma sembra far riferimento, in particolare, ai sacchetti di plastica che nei supermercati vengono utilizzati per la frutta e la verdura e ai guanti di plastica usati per riporre tali prodotti nei sacchetti.

Cosa dice la Direttiva Europea in questione? Ci obbliga a pagare i sacchetti? Leggendo l’articolo 1.2 troviamo:

Gli Stati membri adottano le misure necessarie per conseguire sul loro territorio una riduzione sostenuta dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero.

Tali misure possono comprendere il ricorso a obiettivi di riduzione a livello nazionale, il mantenimento o l’introduzione di strumenti economici nonché restrizioni alla commercializzazione in deroga all’articolo 18, purché dette restrizioni siano proporzionate e non discriminatorie.

Tali misure possono variare in funzione dell’impatto ambientale che le borse di plastica in materiale leggero hanno quando sono recuperate o smaltite, delle loro proprietà di compostabilità, della loro durata o dell’uso specifico previsto.

Ciò farebbe pensare che ci sia la possibilità o meno di introdurre “strumenti economici” come misure necessarie per conseguire la riduzione dell’utilizzo delle borse di plastica, ma proseguendo la lettura dello stesso articolo (ne avevano parlato i colleghi di Butac il 23 ottobre 2017) leggiamo:

Le misure adottate dagli Stati membri includono l’una o l’altra delle seguente opzioni o entrambe:

a) adozione di misure atte ad assicurare che il livello di utilizzo annuale non superi 90 borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31 dicembre 2019 e 40 borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31 dicembre 2025 o obiettivi equivalenti in peso. Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse dagli obiettivi di utilizzo nazionali;

b) adozione di strumenti atti ad assicurare che, entro il 31 dicembre 2018, le borse di plastica in materiale leggero non siano fornite gratuitamente nei punti vendita di merci o prodotti, salvo che siano attuati altri strumenti di pari efficacia. Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse da tali misure.

L’Italia aveva la possibilità di procedere in due diversi modi, il Governo ha preferito seguire il secondo dove rimane possibile usare i sacchetti non ecocompatibili in forma non gratuita nei punti vendita. Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse da entrambe le opzioni proposte dall’Europa, ma anche in questo caso era un’altra scelta discrezionale dei governi nazionali. Questa informazione la possiamo leggere nel testo introduttivo della Direttiva stessa:

Gli Stati membri possono scegliere di esonerare le borse di plastica con uno spessore inferiore a 15 micron («borse di plastica in materiale ultraleggero») fornite come imballaggio primario per prodotti alimentari sfusi ove necessario per scopi igienici oppure se il loro uso previene la produzione di rifiuti alimentari.

La scelta di far pagare i sacchetti è puramente italiana? No, anche altri Paesi europei hanno optato per questa soluzione:

Nel resto dell’Europa la soluzione più diffusa è un costo fisso delle buste: i negozianti non possono più dare ai clienti sacchetti in plastica gratuiti nei Paesi Bassi, in Gran Bretagna, Croazia, Svezia, mentre in base ai dati della Commissione europea sul recepimento della normativa – i cui termini sono scaduti a novembre 2016 – Germania, Danimarca, Austria, Grecia e Finlandia mancano ancora all’appello.

Risulta quasi evidente che secondo i legislatori nazionali proporre un sistema che non faccia superare annualmente un determinato numero di sacchetti di plastica pro capite sia difficile, probabilmente perché ci vorrebbero campagne di sensibilizzazione ed educazione in merito, oltre al problema di dover verificare con attività di controllo che ciò avvenga. Insomma, pare sia stata scelta la strada più “semplice“.

Perché si parla di sacchetti biodegradabili?

Sempre all’art.9-bis leggiamo:

2. La progressiva riduzione delle borse di plastica in materiale ultraleggero è realizzata secondo le seguenti modalità:
a) dal 1º gennaio 2018, possono essere commercializzate esclusivamente le borse biodegradabili e compostabili e con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 40 per cento;
b) dal 1º gennaio 2020, possono essere commercializzate esclusivamente le borse biodegradabili e compostabili e con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 50 per cento;
c) dal 1º gennaio 2021, possono essere commercializzate esclusivamente le borse biodegradabili e compostabili e con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 60 per cento.

In merito al loro utilizzo, in una ricerca Ipsos sostiene che l’87% degli italiani li prediligano, ma ricordiamo che nulla viene gratis e gli esercizi commerciali devono comunque affrontare una spesa e recuperarla in qualche modo anche se ve li “regalano“.

IlSole24Ore valuta questa scelta come un probabile boomerang per i seguenti motivi:

Primo effetto della norma: è necessario che la produzione sia adeguata alla domanda. Se non vi sarà disponibilità, o quando i magazzini saranno vuoti, alcuni supermercati potranno denunciare i fornitori che si rifiuteranno di vendere loro i sacchetti a norma.

Secondo effetto possibile: con l’obbligo del monouso viene promosso l’uso di prodotti usa-e-getta e viene vietato l’uso di imballaggi riutilizzabili. Non sarà possibile presentarsi al supermercato con il proprio sacchetto privato che si riutilizza più volte.

Terza possibile conseguenza della norma: poiché per legge il costo dell’imballaggio non può essere assorbito nel prezzo complessivo del servizio, molti consumatori abbandoneranno il prodotto sfuso e si rivolgeranno ai prodotti già confezionati. Invece di prendere i frutti con il guanto usa-e-getta, pesarli nel sacchetto biodegradabile, etichettarli e poi alla cassa pagare il sacchetto, molti consumatori prenderanno la vaschetta di polistirolo con i frutti già imbustati. In altre parole, più imballaggi in circolazione.

Quarto probabile effetto. La convinzione che il prodotto biodegradabile non abbia impatto ambientale può dare ai maleducati una giustificazione per gettarlo nell’ambiente, affermando che tanto sparirà. Non è vero: il sacchetto biodegradabile sparisce in tempi brevi solamente nelle condizioni appropriate, come quelle degli impianti di compostaggio.

 

Costo annuale per i cittadini?

Su questo tema si sono fatti molti calcoli, pensiamo anche a questo tweet:

Ecco l’ultimo regalo del PD di Renzi, sacchetti a pagamento. ben 14 centesimi per i sacchetti, considerando 1 spesa a settimana per 54 settimane fanno circa 75 euro l’anno. Rivotateli!!

Considerando le stime dell’utente tenendo conto un costo unitario di 2 centesimi, con 14 sacchetti a settimana per 54 settimane si andranno a spendere 75 euro l’anno? A parte che l’anno sarebbe composto da circa 52 settimane, l’equazione risulta dare 7,56 euro. Ditemi che è un troll, almeno mi metto il cuore in pace.

Tornando alla spesa unitaria e a calcoli più attendibili di quello riportato qui sopra, possiamo citare il seguente esempio considerando circa 3 sacchetti a settimana a 3 centesimi l’uno:

A due giorni dall’entrata in vigore il prezzo medio dei sacchetti rilevato dall’associazione dei consumatori Adoc è pari 3 centesimi di euro, in linea con le previsioni. Considerando un acquisto di circa 200 sacchetti l’anno per singolo consumatore, la maggiore spesa a carico del singolo cittadino è pari, in media, a 6 euro.

Sul prezzo non superiore ai 2 centesimi, che secondo il PD nel suo post Facebook sarebbe illegale, non ho riscontrato riferimenti nella legge. Anche AGI sostiene che sia una forzatura:

E qui la parola ‘illegale’ suona come una forzatura, perché non c’è un prezzo calmierato, quanto piuttosto il buon senso che impone di non farli pagare oltre il costo di produzione, compreso generalmente tra 1 e 3 centesimi.

Tenendo conto tra 1 e 3 centesimi e 3 sacchetti a settimana risulta difficile parlare di “stangata“, al contrario di qualcuno che aveva sostenuto come realtà con titoli clickbait. Dovreste consumare, nel caso dei 3 centesimi almeno 38 sacchetti a settimana per arrivare a circa 60 euro all’anno. L’ideale resta trovare soluzioni alternative gradite al Ministero della Salute, ma dovremmo attendere risposta in merito.

David Puente

Nato a Merida (Venezuela), vive in Italia dall'età di 7 anni. Laureato presso l'Università degli Studi di Udine, opera nel campo della comunicazione e della programmazione web.
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